Stavo aspettando la chiamata per la visita in neuropsichiatria. Aspettare, che fatica. Io volevo capire, io volevo iniziare ad aiutare mia figlia.
L’emozione che provavo era di non nutrirla; un po’ come quando sono piccolini e non riesci ad allattarli al seno, e devi quindi trovare un valido sostituto, con sensi di colpa al seguito .
Finalmente Valentina mi chiamò e mi disse che era riuscita a prenotare una visita urgente con la miglior neuropsichiatra che conosceva.
Quel giorno arrivò. Io e Francesco entrammo in una stanza bianca. Gli occhi della dottoressa erano seri e inflessibili, non lasciavano trasparire nulla; insieme a lei altre due dottoresse al suo fianco. Capii che erano molto molto competenti e che sapevano cosa fare. Mi chiesero di uscire dalla stanza senza salutare Noemi per verificare se lei si accorgesse della mia assenza. Uscii. Il cuore andava all’impazzata. Non sapevo se sperare che non se ne accorgesse o il contrario. Da una parte volevo la verità, dall’altra era veramente doloroso. Passarono 5 minuti e poi mi chiesero di rientrare. Entrando Noemi si avvicinò, ma evidentemente non mi aveva cercato come avrebbe fatto un bimbo della sua età. Ci informarono che dovevano fare 3 osservazioni in 3 giornate diverse.
Sono stati giorni con il fiato sospeso.
Durante tutte le osservazioni io e Francesco eravamo sempre fuori ad attendere; fisicamente vicini, ma lontani. Non riusciamo a condividere quei momenti. Tra noi si stava creando una lontananza, il dolore ci stava facendo prendere strade diverse.
Alla terza e ultima osservazione la dottoressa ci informò che erano pronti per comunicarci ciò che avevano osservato, e ci proposero una data.
Dovevamo aspettare…
Qui iniziarono delle prove durissime per me: l’attesa, la pazienza; io ero sempre in movimento e sempre in prima linea a sistemare tutto, e questa costrizione a fermarmi e a non poter far nulla mi faceva impazzire.
Il giorno arrivò.
Entrati nella stanza, la dottoressa dagli occhi impercettibili aveva cambiato sguardo. I suoi occhi erano dentro i miei a sostenermi; così li avvertivo. Ci disse: “Noemi è piccola, ma è evidente che siamo nello SPETTRO DELL’AUTISMO.” Mi arrivarono diritte al cuore quelle parole, una lama che segna una ferita profonda. La dottoressa non mollò mai il mio sguardo. Ci disse tante cose, tra cui che Noemi aveva una diagnosi “importante“, e che dovevamo iniziare subito perché era l’unico modo per aiutarla. Ci parlò di diagnosi precoci e di tante altre cose. Io sentii tutto. Quando ci salutammo le chiesi come avrebbe funzionato adesso, quali sarebbero stati gli step successivi; lei con grande onestà ci disse che il “settore pubblico“ non aveva le risorse per rispondere nell’immediato alle esigenze di Noemi. Ma Noemi doveva iniziare subito. Questo mi fu chiarissimo. La dottoressa mi salutò con un abbraccio che non dimenticherò mai. “Ce la farà! Forza, ci creda“.
Usciti da quella stanza io e Francesco percorremmo un lungo corridoio con vetrate su un parco; fuori c’era il sole e il verde dominava davanti ai miei occhi, ma nei miei c’erano solo gli occhi della dottoressa. Eravamo vicini ma nulla, non riusciamo a condividere. Il dolore era troppo forte.
Appena fuori chiamai mia sorella e sentendo la sua voce piansi, piansi di quei pianti che partono dalla pancia, arrivano al cuore e si fermano lì. Senti il cuore che scoppia. Lei ascoltò il mio pianto e non ci furono parole, sentivo anche il suo dolore. Era così, Noemi aveva l’autismo. IL mio pianto fu anche liberatorio; adesso conoscevo, adesso potevo aiutarla. Mia sorella mi invitò a buttare fuori tutta la tensione di quei mesi, e poi a capire come ripartire. Telefonai anche mia madre, e sentii anche la sua sofferenza. Ne avevamo e ne aveva passate tante in quegli ultimi anni, ma lei mi ha sempre insegnato a non mollare. In quel momento mi mancava profondamente mio padre; lui era un uomo “del fare“, quindi sicuramente avrebbe nascosto la sua sofferenza e avrebbe trovato e scovato nel mondo la miglior cura per Noemi. Ma lui non c’era.
Fino a quel momento avevo pensato che nella vita tutto si poteva risolvere, ma la morte di mio padre e la diagnosi di Noemi mi misero di fronte alla realtà della vita e dei suoi e miei limiti. Questo non potevo aggiustarlo!
Da dove ripartire? Da dove iniziare? La voragine di dolore che avevo dentro era incalcolabile. Noemi aveva l’autismo. Ma cos’era questo autismo?? Le persone che mi volevano bene si strinsero attorno a me e mi sostennero.
Mi addolorava però profondamente l’incapacità di cogliere questo dolore da parte di una fetta del nostro mondo, l’incapacità di cogliere ciò che la Nostra famiglia stava vivendo. Anche io avrei voluto pensare e dire “Forza, passerà. Forza, andrà bene. Ma siete sicuri? Noemi è bravissima. La dottoressa si è sbagliata. L’asilo si è sbagliato”. Per me era una fatica sentire e dover rispondere a queste domande. Avevo dolore, ma non potevo negare quello che stava accadendo, non potevo non accettare; avrei negato il nutrimento a mia figlia. Questo dolore di incomprensione mi accompagnò per un po’ di tempo. Ascoltare, Accogliere, PROVARCI.
Adesso? Dovevamo aspettare la chiamata della “Casa del giardiniere“ (secondo step Asl per avere indicazioni riguardo il trattamento da fare). Ancora aspettare, ma io non volevo aspettare. La dottoressa era stata chiara, dovevo muovermi.
Riuscii a reperire il numero di due professioniste, due educatrici che lavoravano a Bologna. Il loro approccio sarebbe stato perfetto per Noemi, e le avrebbe permesso di aprirsi ed esprimersi totalmente nel mondo.
Al colloquio con le educatrici venne anche Francesco; era iniziò Maggio. Io ero emotivamente finita ma speranzosa. Anche lì due occhi mi arrivarono al cuore. Le due educatrici erano ferme e sicure, e questo mi tranquillizzò. Fino ad allora ero sempre stata convinta che il muovermi fisicamente coincidesse con il fare e fare bene, invece in quella stanza sentivo calma e tranquillità; sentivo di potermi fidare. E così iniziò: quegli occhi entrati nel mio cuore, sarebbero stati quelli che avrebbero seguito Noemi.
Rientrati a casa ero a pezzi, stanca emotivamente, stanca fisicamente, e con un fare quotidiano impossibile da gestire. Dovevo lavorare, fare tutto quello che facevo prima ed in più Noemi doveva fare le terapie. E poi c’ero anche io, ma ancora non mi vedevo. Come facevo? Ma non potevo fermarmi.
Rossella Paura, l’educatrice che iniziò a seguire Noemi fu Luce per me. Lei mi insegnò ad arrivare a mia figlia, come relazionarmi a lei. Quando l’accompagnavo a fare terapia (sì, perché ci andavo anche io, e cercavo di carpire quante più informazioni possibili) entravo in quella stanza e i suoi occhi profondi che incontravo mi permettevano di tranquillizzarmi. Fino ai secondi prima di entrare ero una scheggia in movimento, poi entravo e sentivo di potermi lasciare andare a tutte le tensioni. Lì mi sentivo protetta, lì c’era chi sapeva. L’incontro con Rossella aveva ormai già sancito l’inizio di un circolo virtuoso, ed io c’ero dentro.
Seguivamo le indicazioni dell’educatrice, volevamo trovare un modo per interessarla; la canzoncina “Delle farfalline” che le cantava sempre la mia mamma era perfetta!
Arrivavano i primi sorrisi…
Sei riuscita con le tue parole a farmi rivivere tutto il dolore forte provato in quei momenti. E a vedere il tuo in maniera ancora più chiara. Sei una persona di spessore , se Noemi oggi ha raggiunto traguardi importanti lo deve anche a te che non ti sei mai arresa e che sai amare come pochi sanno fare. ❤️
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Ti voglio bene Giuditta , un bene infinito ❤️
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Sei riuscita con le tue parole a farmi rivivere tutto il dolore forte provato in quei momenti. E a vedere il tuo in maniera ancora più chiara. Sei una persona di spessore , se Noemi oggi ha raggiunto traguardi importanti lo deve anche a te che non ti sei mai arresa e che sai amare come pochi sanno fare. ❤️
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